Sud Africa.

South Africa

Un mese a Cape Town.

Sono nel carcere di massima sicurezza di Robben Island, a una decina di chilometri da Cape Town, sono venuta qui malgrado sia una meta ormai troppo turistica e benché per arrivarci ci si muova in gruppo, condizione in cui non amo molto stare, ma vengo a visitare con rispetto i luoghi del presidente Nelson Mandela, Madiba, che qui ha trascorso 18 dei suoi 27 anni di prigionia.


Si arriva qui in mezz'ora di traghetto da Waterfront, una traversata piacevole tra le onde dell'oceano e voli di uccelli.

All'arrivo al porto c'è una scogliera bianca, urla di gabbiani e acrobazie di foche.

I pullman ci fanno fare il giro dell'isola. Una voce molto bassa inizia a parlare al microfono e attira la mia attenzione, cerco di alzarmi tra le persone per vedere da dove arriva. È la nostra guida, un uomo rasta con un grande cappello che contiene il groviglio di capelli, ha una maglia oro e verde della squadra di football sudafricana e ancora non so che passerò con lui il resto del mio viaggio.


Sono in Sud Africa per un mese, ospite di Antonella; non la conosco bene, ci siamo conosciute su facebook.

È da un anno e mezzo, da quando ha visto le mie foto sul kenya che mi scrive di andare a trovarla a Cape Town.

Quando il tempo è arrivato ho fatto il biglietto. 24 ore di aereo e tre scali per il mio biglietto a tariffa economica.

Cape Town ha una luce pazzesca, questa è la prima cosa di cui mi accorgo fin dal primo giorno.

Antonella ha una casa molto bella proprio nel centro della città e io ho una stanza con il bagno tutto per me e un mese per conoscere quest'altra parte dell'Africa.

Sono davvero fortunata, io sono la precaria più viaggiatrice d'Italia.


È evidente che qui non è l'Africa nera che ho conosciuto in Kenya, Cape Town è una città come europea, una miriade di centri commerciali, una miriade di locali, cinema, teatri, alberghi, ristoranti per ogni tipo di etnia.

E un miscuglio di razze che non si mischiano, gli afrikaner, pelle bianca ma proprio assai bianca, più bianca della mia, hanno origini olandesi, capelli biondi o rossi; i colored, ossia i metticci, discendenti degli schiavi importati in Sudafrica dalla Malesia; e poi i neri. I più belli sono loro, i neri.


Non ho neanche un giorno in cui mi sento spiazzata o fuori luogo. Prendo confidenza con la città perfettamente a mio agio, tranne all'angolo tra Kloof street e Long street dove al semaforo ci sono uomini e donne che non si limitano a chiederti l'elemosina ma ti camminano a fianco, ti seguono, ti toccano, finché non urli “NO!“ ma devi urlarlo forte. Ci ho messo un po' ma poi ho imparato.


A questo stesso angolo c'è il Depasco, un caffé con area wifi e di fronte Best of Asia, ristorante giapponese dove vado a mangiare spring-rolls, tra l'uno e l'altro dò appuntamento a tutte le persone che ho voluto incontrare qui.


Dall'Italia prima di partire ho scritto a una decina di designer, grafici e fotografi, per capire se in questo mese era possibile cercare nuove forme di collaborazione e “allargare il mio mercato“, si dice così mi pare, su scala più international. Avevo scritto a una decina di persone pensando che mi avrebbe risposto -chissà- forse uno? Mi hanno risposto in dieci e la cosa mi ha fatto sentire benvoluta in questa città che non conosco. Li ho incontrati tra Depasco e Best of Asia in Kloof street, sotto casa.


La situazione lavorativa qui è lenta, i mondiali non hanno fatto bene al paese. “eravamo fermi, come quando aspetti che finiscono le vacanze di natale“. Un art director junior guadagna attorno a 8000 Rand, che sarebbero circa 800 euro, qui stai bene se lavori per l'estero. Il mio amico per esempio lavora per un agenzia di Londra e guadagna in una settimana quello che qui guadagnerebbe in un mese.

Capisco che la mia idea di stare a Roma e cercare collaborazioni in Sud Africa è fallimentare, semmai sarebbe buono fare il contrario.

Mi rilasso e mi godo la vacanza.


Il pullman sull'isola di Robben Island procede e l'isola è un incanto, come può tanta bellezza aver ospitato una prigione, aver contenuto così tanto dolore? Fino ai primi anni del novecento quest'isola era un lebbrosario, nel periodo dell' apartheid è diventata un carcere di massima sicurezza dove erano privati della loro libertà, per mano dei coloni europei, attivisti e politici, leader dei movimenti anti apartheid, tra cui Nelson Mandela, per tutti Madiba.

Madiba è una parola che sta per indicare il membro più anziano di una famiglia, come dire “il grande vecchio“ ma con tutta l'accezione positiva che ha nella cultura africana la parola “Vecchio“.

Madiba è sinonimo di saggezza, di colui che porta la storia, la lotta, conosce i passi per percorrere la strada; Madiba è per tutti sinonimo del Presidente Nelson Mandela.


Ci fermiamo vicino alla cava dove i prigionieri erano costretti a lavorare sotto al sole; è inverno adesso ma fa già caldo. Siamo tutti vestiti con qualcosa di leggero e qualcosa di pesante da togliere all'occasione e la cava è una delle occasioni. Non oso immaginare il caldo, il sudore, l'odore a lavorare qua dentro.

Ci mostrano una insenatura più appartata che fungeva da toilette per questi poveri cristi.


Nel piccolo bar dove ci fermiamo la guida rasta mi chiede chi sono e da dove vengo. Rispondo come una scolaretta educata e puntuale fino a quando a un certo punto lui dice che abita a Cape Town, e sento la mia voce mentre dice, “Anche io! Potremmo vederci! Vuoi qualcosa da bere?“. così, con nonchalanche..

Beviamo succo di mela e si riprende il giro, hanno occupato il mio posto e ne cerco uno lontano da questa guida che ormai evito di incrociare con lo sguardo. Mi sento un po' sfacciata. Di solito non invito una persona a vedermi un nanosecondo dopo averla conosciuto, no, di solito non lo faccio.


Arriviamo alla prigione, qui lasciamo queste guide e siamo affidate ad altre, ex-detenuti di questo carcere, che ci faranno entrare nelle celle.

Evito di salutare la guida rasta.


il carcere è buio. il lungo corridoio è un serpente nero di celle con finestre piccole e grate di ferro pesanti, illuminate dai raggi di sole che riescono ad entrare. Nella cella di Madiba c'è un materasso, una coperta di lana marrone, un tavolino verde scuro interamente occupato da una scodella e una tazza d'acciaio. Madiba è stato in questo spazio per 18 anni.

L'ex-detenuto continua le sue storie, credo stia mischiando informazioni sul posto con la storia della sua vita, del dolore che ha provato quando riceveva lettere dalla moglie completamente cancellate. Ci porta nell'ufficio dove un addetto controllava la posta e censurava, separava, decideva. Capisco purtroppo davvero poco del suo inglese e in ogni caso mai potrò capire a fondo di cosa realmente stia parlando.


Quando passiamo dalle celle al grande cortile della prigione, vedo la guida del pullman e il suo cappello col groviglio di capelli agitare le mani per chiamarmi senza parlare.

Lascio il gruppo, vado da lui, torno dentro la prigione. Dico “Ciao, dimmi“ lui dice “shhhh shhh“ con il dito sopra al naso e mi prende per il polso per farmi accucciare a terra. Accucciati accanto alla cella di Madiba, perché non devono vederlo, prende il cellulare, vuole il mio numero, dico non me lo ricordo, mi fa scrivere il suo, “fammi uno squillo“, adesso lui ha il mio. mi guarda, sorride, si rialza. se ne va.

Torno nel cortile, ci sono gigantografie di Mandela, foto di manifestanti, della lotta alla politica razzista, al crimine contro uomini colpevoli di essere nati con la pelle nera. io sono bianca e con un dito accarezzo nelle foto il volto di tutti quanti.



L'UomoMandatoDaDio e BigMax.

La prima volta che rivedo la guida-rasta è per un aperitivo ed è un giorno in cui sono davvero stanca, sono stata a trovare un fotografo nel suo studio vicino a bree strret, poi con un amico grafico a pranzo e infine nei mercati del centro, ma non mi va di essere scortese e rispondo ai suoi sms inoltrandogli le stesse coordinate in inglese che mi ha inviato l'amico grafico per vederci da Depasco alle sette e mezza.

Ma alle sette il bar è chiuso e con il mio inglese assai imperfetto scrivo nuove coordinate per vederci al Best of Asia.

Lui si perde un paio di volte e io perdo la voglia di vederlo. Quasi quasi me ne vado, ma tanto ma chi lo conosce. Lui si ritrova e mi raggiunge. Entra nel locale e io non mi alzo per salutarlo. Tutte le persone che ho conosciuto prima di lui mi hanno sempre solo dato la mano, e mi sono fatta l'idea che qui non ci si tocca più di tanto come in Italia, che diamo la mano e ci salutiamo con due baci sulla guancia. Mi sono fatta questa idea e allora per non essere invadente mi correggo e mi trattengo. Ma pare non gradire il mio controllo “ehi, adesso ti mostro come si saluta un africano“ mi prende mi fa alzare e mi abbraccia forte. Minchia.


Ha la stessa maglia oro e verde dell'altro giorno ma lo guardo meglio, c'è qualcosa tra me e lui. Me ne accorgo immediatamente ma so come si fa per non curarmene. Lunga esperienza nel campo.


“Vuoi vedere il tramonto?“ faccio finta di non capire il suo inglese, prendo tempo per decidere se devo andare a vedere il tramonto con uno sconosciuto, guida a Robben Island, e da quello che ho letto le guide di Robben Island sono tutti ex-detenuti, prendo tempo per decidere se andare a vedere il tramonto con un potenziale ex criminale appena conosciuto o inventarmi qualcosa e rimandare. Ripete lentamente “sunset, capisci cosa dico quando dico sunset? vieni a vedere il tramonto con me?“

“volentieri“ sento che gli rispondo.

La sua macchina ha la portiera dalla mia parte che non si chiude bene, la tengo mentre risaliamo la montagna, il volante cigola specie nelle curve. A me pare che perdiamo i pezzi ma saliamo su Signal Hill; non ci sono mai stata prima, vedo la collina ogni giorno dalla finestra della sala da pranzo.


Ci sono tante macchine, tante persone che salgono su per vedere il tramonto perciò sono tranquilla, gli chiedo se ha vissuto a Robben Island, risponde che vive nella township di Khayelitsha. “È vero che le guide di Robben Island sono ex-detenuti?“ è il modo che trovo per capire se sono in macchina con un criminale. Mi spiega che non tutti lo sono, lui per esempio non lo è. Ha studiato per diventare guida, ha mandato un curriculum, così come succede per tutti i lavori del mondo.


Saliamo sempre più, non si arriva mai, più saliamo e più siamo soli, tutte le altre macchine si sono fermate prima, ad ogni curva la mia testa partorisce pensieri malati. Curva su curva vedo articoli sul giornale di un'italiana derubata a Signal Hill, curva dopo curva l'articolo è diverso, parla di una cogliona violentata sul Signal Hill da un criminale a cui prima aveva chiesto “scusi ma lei è un criminale?“

Chissà dove dovrà venire Antonella, povera Antonella, a raccogliermi su questa montagna.

Saliamo. Deserto, io non vedo proprio nessuno e non parliamo più. Panico.

Poi l'ultima curva e arriviamo alla sommità della collina.

È un parcheggio di macchine, tutti fermi come al drive-in a vedere il sole.

Qualcuno nelle macchine beve vino e guarda il sole.

Rido dei miei pensieri malati. Arriviamo che il sole è già calato.

In tutte le altre volte, come in questa, arriveremo a sole già calato. In tutte le altre volte, come in questa, avrò pensieri assai malati, che rimbalzano tra la fiducia in questo ragazzo e la paura che possa farmi del male. Pensieri di cui mi vergogno, che non ho avuto con altri amici/sconosciuti solo perché bianchi, pensieri malati, eredità del più penoso bagaglio culturale.


Il giorno dopo ci vediamo ancora, mi racconta che è fidanzato, ha una ragazza che dice che non vede mai, ha una figlia che non vede mai, e che tutte e due le mancano. C'è lo stereo acceso, la musica è di Bob Marley. lui parla parla parla. La musica cambia, mi accorgo di un pezzo in particolare, gli dico di rimandarlo indietro. “perché?“ “wait wait fammi ascoltare“ “chi è questo che canta?“ “si chiama Sugar“ “e chi suona la chitarra?“ “sono io alla chitarra“.

Guida ma si volta a guardarmi, io resto a guardare silenziosa lui che mi guarda mentre guida pensando che non sono certo una intenditrice di musica, anzi tutt'altro, ma la chitarra che avevo sentito è come la sua voce, profonda allo stesso modo, questo ragazzo suona come parla. Fantastico.

Guida e mi guarda, dice serio “io e te ci piacciamo“, Con i tono di chi l'ha detto chissà quante volte, sembra ripetere un copione che deve aver imparato a memoria.

rispondo“ sì, c'è una qualche magia tra me e te ma possiamo anche non farcene niente, non preoccuparti“

“mmm“ fa cenno di sì con la testa e continua a guidare con la mia mano dentro alla sua mano.

mi chiede “cosa fai stasera?“

“mi aspetta una cena noiosa“

“e con chi?“

“con una che non conosco“

“e tu lasci me per una cena noiosa?“

“devo! devo aiutare la mia amica a sopportare la serata, ascolta dove posso comprare questo disco?“

lui ride. “è un live, non è in vendita“

“ma io lo voglio, come posso fare?“

“non puoi fare, non si vende! Ti vedo?“

ci resto proprio male. rispondo “qualcosa accadrà“.


E accade che ci vedremo di tanto in tanto. E accade che un giorno, forse quel giorno ha un profondo calo di stima per se stesso, mi dirà che lui è L'Uomo Mandato Da Dio Per Me.

Bene, molto bene...

Un giorno su Skype scrivo di lui a Massimone, Massimone è il mio migliore amico gli voglio bene almeno almeno quanto pesa, perciò più di un quintale di bene.

Ho skype ma non ho il microfono, possiamo solo chattare. Gli scrivo che ogni tanto vedo uno che è nero, che vive nelle township, che è fidanzato, che ha una figlia, che a occhio e croce è più morto di fame di noi due messi assieme.

BigMax mi risponde: “cara Speri, vedo che hai saputo scegliere bene.“

“Big, mo che torno a Roma dobbiamo pure noi sharare qualcosa, qua tutti sharano qualcosa, l'appartamento, il posto di lavoro, shariamo anche noi?“

“Cara Speri, non ti preoccupare che anche qui tutti sharano il mio culo“

BigMax ha una visione molto chiara del lavoro, ogni progetto che inizia è potenzialmente l'occasione in cui qualcuno glielo metterà al culo. Sono sempre cazzi al culo, e sono “cazzi AVVITATI al culo“ i casi di lavori assai complessi o di collaborazioni con gente con il pelo sullo stomaco, e sia io che lui ne sappiamo molto a riguardo, su questi squali potremmo scrivere un libro degli orrori.

“Cara Speri noi non siamo imprenditori, noi siamo Prenditori“

E così il culo di Massimone è uno dei luoghi più visitati al mondo, dovremmo chiedere tutela all'Unesco, farne patrimonio dell'Umanità. Così come la Table Mountain che sovrasta Città del Capo. Prima di salire sulla vetta ci sono grandi poster che invitano a votare la Table Mountain e farla diventare una delle 7 meraviglie della natura. Dovremmo organizzare lo stesso tipo di comunicazione per il culo di BigMax.



La Mafia sulla Table Mountain.

Visitare la Table Mountain è una esperienza pazzesca, non solo per la bellezza della montagna ma perché in questa escursione ti rendi conto della civiltà di questo paese. A cominciare dall'accesso alla montagna per le persone in carrozzina. La mia amica Anna che ha più di 70 anni e che da 5 per una forma di artrosi non riesce a camminare molto bene, se per 5 anni in Italia ha vissuto chiusa in casa, da gennaio, da quando si è trasferita a vivere qui a Cape Town, le è stato permesso di muoversi davvero ovunque e arrivare anche in cima a una montagna.

Il grado di civiltà di questo paese lo misuri dalla quantità di bagni pubblici e dalla pulizia dei bagni disseminati in ogni luogo, nei negozi, nelle riserve tra la natura più selvaggia e persino nelle chiese. Il grado di civiltà di questo paese lo vedi alle file della casse al supermercato e dalla cortesia delle cassiere, ti salutano, ti chiedono come stai e dopo che hai pagato sempre ti augurano di goderti il resto della giornata. Proprio come al Superconti sotto casa mia a Roma! Certo noi non abbiamo l'apartheid, infatti non dico che il Sud Africa sia meglio dell'Italia, dico solo che di sicuro abbiamo perso molto, abbiamo dimenticato qualcosa.

Sulla cima della Table Mountain si arriva con una cable car, è fantastica perché tutti entriamo cercando la posizione migliore per percorrere i 7 minuti di ascensione, ma -surprise- la piattaforma che ci porta su gira su se stessa e ognuno di noi può godere della vista a 360 gradi. Fantastico.


Il giorno che visito la Table Mountain però mi girano un po' le palle e su un cima ci sono davvero troppe persone. Cammino allontanandomi, trovo un posto dove posso stare sola. Cape Town dall'alto è se possibile ancora piu bella di quando ci stai dentro. Arriva un gruppo di cinesi, si mette in bilico sullo strapiombo per farsi foto con il panorama dietro, e urla, parla a voce altissima. Anche le due ragazze di colore che stanno a telefono su una roccia parlano forte. Quanto non vi sopporto! Come si fa a parlare in un luogo così. Ci sono posti che sono chiese, cattedrali a cielo aperto, non è in chiesa che devi pregare, è davanti a tutto questo che devi sentire devozione. È un luogo sacro che cazzo ci fai con un telefono? Mi rode proprio il culo oggi. Mi allontano.

Più cammino e meno incontro persone. Arrivo dall'altra parte del sentiero. Passano due tizi, si scattano foto con lo strapiombo alle spalle ma almeno sono silenziosi. Mi sorridono “ci fai una foto?“ Gliene scatto più di una per sicurezza.

“ Where are you from?“ mi chiedono “I'm from Italy“ rispondo

“ah, ciao-bella-spaghetti- mafia...“ ridono solo loro.

Dico “sorry?“

si accorgono che non è aria mi dicono “sorry..“

Sorry su sta minchia.

Me ne vado anche da loro.

Ma perché se dico Italia non si dice Leonardo Da Vinci, Michelangelo, Dante Alighieri? Dove abbiamo sbagliato? Cosa siamo diventati?

L'anno scorso giravo per il Kenya con un'americana che diceva che fino a qualche anno prima si vergognava di dire che era americana. Poi per fortuna hanno avuto Obama e possono sperare di camminare senza vergogna, di appartenere a un popolo che almeno ci sta provando a cambiare.

E io? perché mi devo vergognar di essere Italiana?

MAFIA, mi sono rotta il cazzo di sentire di mafia, di camorra ne ho le palle piene. Io non sono espressione di questa mentalità semmai di chi la combatte. Mi sono schierata, ho combattuto, ho manifestato eppure su una montagna dall'altro capo del mondo c'è un coglione che mi dice MAFIA.

Non ho più voglia di difendermi, e non difendo il mio paese che francamente mi allontana.

Cosa vuol dire essere italiana? Io non sto più da nessuna parte e fintanto le lotte, dei partiti o dei movimenti viola gialli o del colore che vuoi, saranno lotte contro qualcuno da combattere non mi vedranno più in prima fila. Costituirsi in un partito è già creare dualità, è organizzarsi in gruppi per dire “noi siamo meglio“, non è di questo di cui abbiamo bisogno.

Sogno un paese con un popolo che trovi valore in un idea, in un qualche pensiero e non in un gruppo organizzato che la esprime o peggio ancora in un leader, che sia libero di votare e scegliere indifferentemente tra persone di destra e di sinistra quella più capace di organizzare una comunità.

Sogno un leader che sia invisibile, che faccia un passo indietro affinché siano visibili solo le sue idee, che si rafforzino quelle e non il suo potere.

Fintanto uno di sinistra non voterà uno di destra solo perché di destra ci sarà qualcosa che non va, un dualismo che non porta a niente se non a parlarsi addosso e a parlarsi contro.

La politica potrebbe essere una cosa molto più divertente di come l'abbiamo fatta diventare, un atto creativo molto più potente.

La politica la facciamo tutti con decisioni di vita, di lavoro, dello stare insieme ogni giorno. La fai scrivendo un libro, scattando una foto e sfornando il pane onestamente. Cosa ci è successo a noi in Italia? Cosa stiamo diventando?

Qui in Sud Africa l'esperienza di Mandela è un grande esempio. Mandela quando diventa Presidente fa una cosa che va contro le previsioni della sua stessa gente, tiene accanto a sé al governo gli stessi bianchi che fino a ieri lo tenevano recluso in una prigione in quanto nero. Lo fa per tanti motivi e per certi versi è costretto a farlo ma è l'esempio di come un problema non si risolve riproponendo gli stessi meccanismi. Se avesse mandato via i bianchi avrebbe reiterato un errore, avrebbe riservato loro la segregazione contro cui stava lottando. E tutto sarebbe stato vano, tutti i suoi anni in prigione. Lui ha saputo uscire dal sistema, tentare un cambio di paradigma. Lo stesso che vorrei per il paese in cui io vivo, qualcuno capace di soluzioni fuori dal sistema, solo così possiamo evitarci di vomitarci sempre addosso.

Sono due le cose o disperarsi in questa epoca di passaggio o nutrirsi di speranza, credere. Imparare dalla storia che nei periodi più bui coloro che sono sopravvissuti non erano i giganti ma uomini esili armati di speranza, hanno proiettano una visione di un mondo migliore con la consapevolezza di attraversare un dolore compreso e giustificato dall'equilibrio che verrà. A Robben Island, l'isola che vedo perfettamente da questa montagna, in una cella di pochi metri Mandela è sopravvissuto al suo dolore, alla mortificazione comprendendo il senso di quello che gli stava accadendo. La consapevolezza lo ha reso “mai sconfitto“, lo ha reso invictus. E Invictus, è la poesia che Mandela legge negli anni della sua prigionia.


Dalla notte che mi avvolge
nera come la fossa dell'Inferno
rendo grazie a qualunque Dio ci sia
per la mia anima invincibile.

La morsa feroce degli eventi
non m'ha tratto smorfia o grido.
Sferzata a sangue dalla sorte
non sè piegata la mia testa.

Di là da questo luogo d'ira e di lacrime
si staglia solo l'orrore della fine,
ma in faccia agli anni che minacciano
sono e sarò sempre imperturbato.

Non importa quanto angusta sia la porta,
quanto impietosa la sentenza.
Sono il padrone del mio destino;
il capitano della mia anima.
(W.E. Henley)




A Langa.

L'UomoMandatoDaDio sta passando a prendermi alle otto. In macchina dice che stiamo andando a un party. Guida e ci allontaniamo di tanto dal centro della città.

Quando mi accorgo che siamo proprio lontani gli chiedo dove stiamo andando. “A Langa“

“Cosa? A Langa?“

“Sì a Langa, dai miei amici“

“Ma Langa è una township e io sono bianca. Dai, non puoi portarmi a Langa di notte“

“Ti fidi di me?“

“ma non puoi portarmi a Langa di notte, io sono bianca“

“ L'altro giorno mi hai detto che eri nera, come me. Adesso vediamo se sei nera“

“Ehi, guardami in faccia. Mi stai portando a Langa di notte. Io mi fido di te“


La testa ricomincia a partorire i pensieri malati e legge articoli sui giornali di una giovane italiana rapita a Langa, più gli dico “io mi fido di te“ più sono la protagonista cogliona di un film dove prima di essere fatta a pezzi lei dice ripetutamente al suo assassino “io mi fido di te“. Giro film nella testa, sono regista e attrice protagonista, lui ride e dice “dai adesso vediamo se sei nera davvero“.

Arriviamo a Langa, è sabato sera, c'è una marea di gente nella strada, cantano, ballano e bevono.

Non c'è illuminazione per le strade, li vedo solo quando passiamo con i fari della macchina che fanno luce su persone, soprattutto donne, stramortite sui marciapiedi. “Porcaminchia! ma cosa fa questa donna a terra? perché sta così?“ “ma niente, avrà bevuto“. Mi spavento di tutto, lui se ne accorge, gli dico “...scusa ma è la prima volta per me che vedo cose del genere“. E come regista del mio film aggiungo quest'altra battuta scema e ingenua da dire al mio assassino.

Spero con tutto il cuore che non sia questo il party a cui sono invitata. In mezzo alla strada senza illuminazione ferma la macchina e mi dice di aspettare “Minchia, ma dove vai?“ “don't worry devo ricaricare il telefono“. Quando torna mi trova con il telefono tra le mani che mando messaggi ad Antonella. Ride come uno scemo e fa salire in macchina un altro uomo. Dio mio buono proteggimi.

“Ma scrivi messaggi alla tua amica? Ma dai, davvero sei spaventata?“

“eh! Minchia!“

“Cosa vuol dire minchia?“

Non so se ridere o piangere.

Arriviamo a casa dei suoi amici. Entro.

La prima stanza di questa casa è un salone con due divani e dalla parte opposta ci sono sedie per tutte le persone che stanno arrivando. C'è un televisore acceso senza volume sulla partita della loro squadra e su una sedia un computer portatile da cui un ragazzo per tutta la sera fa partire la musica. Nell'altra stanza una ragazza è dietro ad un tavolo imbandito di ogni cosa, carne, insalata, fagioli, riso, pomodori e fuori un gruppetto di ragazzi parlano attorno al fuoco del barbecue. L'UomoMandatoDaDio mi dice “fa come se fossi a casa tua“. Il panico di prima mi ha fatto venire fame e mangio la carne che è buonissima, preparo un piatto anche per lui che non lo vuole, dice non ti curar di me, vai, parla un po' con i miei amici. I ragazzi attorno al fuoco mi chiedono chi sono e da dove vengo, sono l'unica bianca per un po', poi arriva una ragazza newyorkese che mi spiega che questo party è per lei, per salutarla dopo due mesi che sta qua. L'UomoMandatoDaDio mi dirà poi che non è vero, che lui l'ha vista solo due volte, quando è arrivata e adesso che se ne va, ma che se è felice di pensare che il party è per lei, che lo pensi.


Girovago tra le quattro stanze della case, apro una porta curiosa di vedere un'altra stanza, ci trovo dentro un letto che occupa la stanza interamente e una signora sopra al letto, è la mamma della famiglia che ci sta ospitando, le dico “scusi“ risponde “Benvenuta, divertiti“

Vado fuori e sto con i ragazzi, ho freddo e mi rimetto la giacca e cercando il burro di cacao porto fuori la borsa e tutti mi chiedono “te ne stai già andando?“ dico “no ho solo freddo“. Mi fanno posare la borsa in una stanza, la ragazza che mi ci porta dice “qui è al sicuro“ e io mi vergogno perché capisco che hanno creduto che stavo proteggendo la mia borsa. Ma non era così.

Entro di nuovo in casa, l'UomoMandatoDaDio segue la partita, mi parla della squadra che nel frattempo fa un goal e allora tutti cantano, due donne si alzano e ballano alla vittoria tenendo fermo il busto e muovendo il bacino e i piedi.

Il ragazzo che mette la musica assomiglia a Will.I.Am dei Black Eyed Peas, è identico, pure vestito uguale, stessi occhiali e stessi capelli, lo dico all'UomoMandatoDaDio, lui ride come un pazzo dice è vero e mi dà un bacio in fronte.

Per così poco penso io, se è per questo pure la donna che mi sa ballando in faccia assomiglia a Skin ma mi trattengo da dirlo, mi pare troppo.

Skin si agita e mi si struscia addosso, è ubriaca persa. L'UomoMandatoDaDio le urla “Shit!“ e mi allontana da lei, anche fuori c'è un uomo ubriaco mi parla in Xhosa e appena esagera L'UomoMandatoDaDio si materializza e dice “Speranza, no!“

Gli amici che sto conoscendo sono ragazzi così posati e quieti, mi raccontano le loro storie, sono quasi tutti studenti e quasi tutti studenti che stanno per interrompere la scuola per lavorare per due tre anni e recuperare i soldi per riprendere a studiare. L'UomoMandatoDaDio viene da me a chiedermi “allora, sei ancora nel panico?“

“Ti chiedo scusa, Man, ho avuto pensieri, i peggiori che potevo avere, ti chiedo scusa, davvero credimi“

“Non c'è ragione per chiedere scusa, qui lo vedi siamo tutti tranquilli. Gli Afrikaner non vengono mai qui a vedere come viviamo. Loro sono così“ e mi mette le due mani sopra agli occhi “se solo venissero di sera a stare con noi ci vedrebbero meglio“ e mi toglie le mani dagli occhi.

Poi dice cose che non capisco, le ripete, non capisco dice “sì, vabbé io torno dentro“.

Quando esce di nuovo fuori dice “Speranza, io ho già detto bye, dì bye anche tu, andiamo“

Dico bye, abbraccio e bacio i miei nuovi amici e entro nella stanza dove la ragazza ha messo la mia borsa. È una camera da letto, è buia vedo un mucchio di giacche e borse, e la mia, rossa, spicca fra le tante.

C'è in questa stanza al buio uno degli studenti con cui parlavo con un piatto di fagioli in mano che sta mangiando. Si vede poco, la porta si riapre e entra la newyorkese mi dice “vai via?“ “sì devo andare, sono felice di averti conosciuta“ “lei mi abbraccia fortissimo forse è piena di emozione per il suo ultimo giorno qui. Entra pure L'UomoMandatoDaDio e mi trova al buio abbracciata ad una donna bianca con un giovane nero con un piatto di fagioli in mano. “Speranza io ho già detto bye, tu hai detto bye?“ “sì, sì lo sto facendo“.

In macchina non siamo soli, ci sono altri amici, non so se vengono con noi ad accompagnarmi o siamo noi che accompagniamo loro.

Pian piano scendono, ne resta solo uno, ma solo perché vive fuori dalla township. Ad ogni amico che scende dalla macchina L'UomoMandatoDaDio dice God Bless You my brother.

Quando restiamo soli prendiamo la strada per Cape Town

“Tu sei una pazza, lo sai?“

“perché?“

“perchè? sei venuta da sola con uno che non conosci a Langa“

Lo riempio di botte.

“L'altro giorno mi hai detto di smetterla di dipingermi come un santo, ma io lo sono e lo hai visto anche i miei amici lo sono. L'altro giorno ti sarò sembrato un pazzo“

“quando?“

“quando ti ho detto che la mia musica non si vende, ti sarò sembrato un pazzo. Ma noi abbiamo avuto contatti con case discografiche ma non ci è piaciuto, vogliamo essere liberi di fare la nostra musica“

“ma io volevo solo comprare la tua musica, conosco un sacco di musicisti che non sono famosi in Italia e comprare la loro musica è un modo per supportarli“

“io non ho bisogno del tuo supporto, non ho bisogno di vederti un cd, questa musica è fatta per essere ascoltata non per essere venduta. Al massimo puoi copiartelo sul tuo laptop, ok? Andiamo a Signal Hill?“

Andiamo a Signal Hill, la collina sulla quale avevo iniziato ad avere così tanti pensieri brutti per quest'uomo, ci torniamo e li butto via per sempre.

Scendiamo dalla macchina, con tre passi potremmo precipitare in un burrone. Fa freddo, mi stringe nella giacca con le braccia. Cape Town di notte ci toglie il respiro. “It's too much for me“ con due mani porta il mio viso verso il suo e prende respiro dalla mia bocca. Il groviglio dei capelli si scioglie sulle sue spalle.

“L'altro giorno parlavi di magia...“ mi dice. “È questa la magia“ io gli rispondo.




Crazy taxi e “Se si alza una mano poi si alzano tutte”.

Uso diversi mezzi di trasporto per muovermi a Cape Town, di tanto in tanto prendo un taxi; per due o tre volte ho preso il City Tour, il bus che ti fa fare il giro della città; le macchine dei miei amici, quelle dei neri sono tutte scassate tranne quella di Siviwe che è una UNO FIAT di cui va orgoglioso; quelli che uso di più sono i taxi collettivi.

Il taxi collettivo è estremamente economico, ed è estremamente creativo. C'è il capolinea proprio fuori al cancello del condominio di Anto, di fronte al Seven/eleven, il supermercato aperto dalle sette del mattino fino alle undici di sera ma che non c'ha mai niente di buono.

Da qui sai quando parti ma non sai quando arrivi al centro della città. Funziona così: c'è l'autista e un altro signore che raccoglie i soldi di chi sale a bordo ma che soprattutto ferma tutti, e quando dico tutti dico tutti, per convincerli a salire. Se non si è in numero da loro ritenuto sufficiente si fermano nel bel mezzo del tragitto e aspettano. Oggi ho un appuntamento con Andrea, art director di una agenzia di comunicazione e Annalisa, presidente dell'Istituto della cultura Italiana qui a Cape Town, dobbiamo parlare di un progetto, devo essere lì alle due.

Andrea mi dice “con un taxi ci metterai un quarto d'ora“

Esco quaranta minuti prima perché devo raggiungere il taxi con il mezzo collettivo.

Salgo al capolinea e mi siedo accanto al finestrino, pian piano arrivano altre persone, sono signore davvero grosse che mi schiacciano contro il finestrino. Ne ho sei addosso. L'autista decide di partire. Chiedo a una delle signore le indicazioni per andare dove devo andare e per farlo le mostro sul cellulare l'sms in inglese che mi ha inviato Andrea.

Non lo avessi mai fatto! Il cellulare fa il giro del furgone e tutti, e quando dico tutti dico tutti, mi danno consigli su come raggiungere il posto. C'è chi opta per la soluzione più economica e allora dice che dovrò scendere quando mi dirà lei e prendere un autobus. C'è chi saggiamente mi chiede quanto tempo ho per arrivare, un mezz'oretta rispondo. Allora no, niente autobus meglio il taxi.

Dall'ultima fila una signora grassa con i capelli in un variopinto foulard reclama il cellulare, deve leggere il messaggio per dire la sua. Autobus! La maggioranza dice autobus. Il cellulare torna a me. All'altezza del centro commerciale di Kloof street scendono due signore e l'autista ferma il mezzo. Naaaaaa.... restiamo fermi tantissimo, devono riempire i posti vuoti. Ecco ci siamo, ci sono due turisti che passeggiano, gli urlano “Taxi?“ loro ahimé, guardano dentro, dicono no, proseguono, poi si fermano, tornano indietro, ci puntano la macchina fotografica contro e urlano “White girl, smile!“ ho un colpo di flash addosso e le sei signore nere grasse ridono ballando con le spalle e mi comprimono sempre più sulla lamiera del furgone. Deve essere uscita fuori una foto deliziosa, piccola donna bianca schiacciata da grosse donne nere. Ridiamo tutti ma è tardissimo, la maggioranza decide che devo arrivare alla stazione e prendere un taxi. Alla stazione due delle donne grasse personalmente mi accompagnano al taxi, non al primo della fila, non al secondo, ma da uno qualsiasi scelto random forse per la faccia pacioccona e a lui mi affidano, mi prendono il cellulare dalle mani lo danno al tassista che infila gli occhiali, ci mette un quarto d'ora per capire, salgo a bordo e parto. Arrivo sudata e con un ritardo pazzesco.

Dopo la riunione Andrea gentilmente mi accompagna alla fermata dell'autobus per tornare in città. Gentilmente aspetta con me ma l'autobus non passa mai, gli dico di non preoccuparsi e di andare, mi saluta “comunque non puoi sbagliare è un autobus bianco e verde“.

Aspetto, aspetto, passano tanti autobus con sopra le indicazioni scritte a penna “Cape Town“ ma nessuno è bianco e verde. Aspetto e alla fine ne prendo uno qualsiasi. Va a Cape Town? Sì, Alla stazione? Sì

Perfetto.

Arrivo alla stazione ma dall'altra parte rispetto all'entrata che conosco. La stazione di Cape Town da questa parte è peggio della stazione di Napoli di notte, gente buttata a terra in ogni dove, altri che vendono ogni genere di cosa, mi si avvicinano credo che vogliano vendermi pure la madre. Cammino in mezzo a loro con passo sicuro come se sapessi benissimo in che direzione devo andare ma non ne ho la più pallida idea.

Vedo un uomo con una giacchetta fluorescente come da noi gli ausiliari del traffico, allora chiedo a lui. Mi risponde gentilmente ma troppo velocemente, capisco solo “oltre il ponte“ e poi alla fine aggiunge con la stessa gentilezza “marijuana?“

Minchia! Pure adesso ho saputo scegliere! Dico no, grazie! e proseguo senza avere la più pallida idea di dove devo andare, ma adesso so che troverò un ponte. Infatti eccolo. Al di là del ponte la zona della stazione che riconosco. Salgo sul taxi collettivo che mi porterà in Kloof Street. L'autista sta fuori, mangia arance a ripetizione senza sbucciarle e noi dentro aspettiamo aspettiamo aspettiamo... entra l'autista pare che si parte ma è venuto a prendersi un'altra arancia, entra il tizio che raccoglie i soldi, forse si parte ma mette su una musica rap e balla, balla, balla come solo un africano sa ballare. che fichissimo! ci rilassiamo tutti. Io e la mia compagna di sedile ci rilassiamo troppo perché saltiamo in aria quando un uomo ci bussa al finestrino della nostra parte, ha una gallina fatta con buste di plastica blu bianche e rosse che vuole vederci. Gli chiudiamo il resto del finestrino in faccia.

Finiscono la musica e le arance, siamo a completo, si parte.

Scendo al capolinea, come sempre, alla fine di kloof street in questa zona assai tranquilla ma la giusta conclusione di questa giornata è stato trovare sotto casa una macchina decappottabile rosa piena di Dark Queens coloratissimi che si fotografano in gruppo. Al via, invece di dire “Cheeeese“ urlano “Biiiitch“.

Crazy Cape Town, ti adoro!


A Cape Town ho fatto un giro tra le agenzie per mostrare il mio lavoro di grafico ma l'interesse maggiore l'hanno riscosso i miei progetti personali, quello sul Diritto alla Felicità e un altro realizzato contro la criminalità e a sostegno, tra l'altro, di Roberto Saviano. Mai avrei pensato che qualcuno mi chiedesse di rifare il progetto delle mani alzate dall'altra parte del mondo e di provare a pensare di organizzare un evento a cui invitare Roberto a parlare di criminalità.

Non ci avrei mai pensato ma capisco che può essere una cosa che può riscuotere molto interesse, il problema del crimine è molto sentito qua. Più mi chiedono se sono interessata alla cosa più mi convinco che sarebbe un privilegio riuscire a organizzare un evento che possa far arrivare qui Saviano; Roberto arriverebbe nella terra di Miriam Makeba che da qui è partita per arrivare a cantare per i neri di Castel Volturno. È partita per i suoi ragazzi e per lui, per Roberto, e non è tornata più.

So bene quanto sia famoso Roberto in tutto il mondo ma mai avrei pensato di raccogliere affetto e solidarietà anche qui dall'altro capo del mondo, fra chi guardando il mio portfolio capisce che ho avuto delle collaborazioni con questo scrittore. In particolare mi ha impressionato un fotografo francese, l'ho conosciuto il giorno che ho fatto un lavoro nel suo studio a Cape Town. Lui si chiama Denis, è molto carino e quando sono entrata un'amica italiana ci ha presentato dicendomi che Denis non vedeva l'ora di incontrarmi. Visto quanto era carino ho sperato che non vedeva l'ora di incontrare me in carne ossa e tutto il resto, invece era curioso di chiedermi mille cose su Saviano. Ha letto il libro in francese, ha visto il film, vorrebbe conoscerlo.

Alla fine del lavoro mi ha abbracciata due volte, un abbraccio è per Roberto! Incredibile, bello!

Ho scritto a Roberto, non mi ha risposto. Ma non importa. A me piace quando succedono queste cose, ho come l'impressione di fare da conduttore di onde energetiche. come se qualcuno abbia buttato un sasso e creato onde in uno stagno che si propagano e arrivano davvero ovunque passando attraverso molecole che conducono vibrazioni che si rinnovano e si rafforzano. È un movimento energetico che può non finire mai e poco importa se chi ha buttato il sasso ora è altrove. Anzi io credo che chi ha buttato il sasso debba stare altrove e che bisognerebbe guardare al movimento e non a chi lo ha azionato per consentirgli la libertà di fare poi quello che lui vuole, anche di buttare sassi altrove più leggeri, spensierati.




Di Due, Uno.

Avere a che fare con un Xhosa può voler dire molte cose, tra le peggiori: ti darà appuntamenti a cui non verrà perché se ne sono accavallati altri, cercherà di incastrarti tra il meccanico e un intervento alla radio, verrà ad appuntamenti che lui stesso ti ha dato restando a telefono a lungo con tutti quelli che lo aspettano e di cui si è scordato “ho la testa piena di cose“. È a casa con me ed è a telefono, dice che lo aspetta la cugina. “sai, potresti anche fare a me di dire che è una cugina “

“certo che è mia cugina, anzi è la cugina di mia mamma“

“secondo me invece non è tua cugina“

“guarda che la maggioranza dei turisti con cui lavoro è fatta di donne, è nel mondo che la maggioranza è di donne, se dovessi chiedere il numero a tutte diventerei pazzo“

“Oh my poor little boy! infatti tu sei pazzo e sei pure uno sciupafemmine“

“What? sciupafemmine? What means ?“

“means che fai bene, Man“

“faccio bene, Woman?“

“Yes! Enjoy your beauty, bro'!“. A un uomo così in Italia gli avrei dato un calcio in culo.

Quella sera resta con me e manda all'aria i suoi impegni.

Non troviamo nulla di più naturale da fare che, occhi negli occhi, stare nudi uno di fronte all'altro. Sotto la maglia di lana infeltrita marrone chiaro, ha una canotta di cotone rosso, e sotto la canotta rossa, la pelle di seta nera che giustificherebbe cambiamenti di rotta dei marco polo di tutto il mondo. Scivolo fra le sue braccia e l'intreccio dei suoi capelli cade lungo la schiena e ci avvolge come mille braccia, prolungamenti di vene e arterie, piante rampicanti da cui pare impossibile adesso liberarsi. Quest'uomo cresciuto in mezzo alle lamiere sembra fragile e forte come un fiore di calla che qui, nel suo paese, cresce spontaneo come erbaccia tra le rocce.

Di due siamo uno.

In questo stesso istante a Cape Agulhas, la punta più meridionale dell'Africa, due oceani, l'oceano Indiano e l'oceano Atlantico si stanno incontrando. Le loro acque ignare di avere due nomi diversi superano frontiere che il loro mondo non contempla, l'impeto della loro natura scavalca ogni umana e stupida convenzione. Le onde violente si gonfiano e colpiscono la roccia e l'acqua sale su come una lode al cielo. E poi ritornano per morire soddisfatte ai piedi della roccia, tornare indietro, trovare vitalità nuova e ricominciare in un ciclo di rinascita e di morte.

In questo stesso istante a Kirtstenbosch, i giardini botanici più grandi del Sud Africa, un'ape deposita polline nella corolla di un fiore e distese di protea emanano profumo verso il sole. Tutto trova armonia nell'essere UNO solo.

In questo stesso istante, e solo in questo, io sono una donna così bella, ma bella davvero, libera tra le braccia di quest'uomo, così orgoglioso di essere uomo.





il Diritto alla Felicità e i terroristi infelici.

Ho un appuntamento con Jerry per andare nelle township, ma Jerry è un Xhosa e perciò tarda, non avvisa e alla fine non viene per niente. Perdo tutta la mattinata ma non mi perdo d'animo, chiedo a L'UomoMandatoDaDio che sta lavorando sull'isola se ha i contatti di altre guide. Mi manda il numero di Siviwe, ho appuntamento con lui alle due. Arriva alle due e mezza e aspetto che finisca di mangiare un panino e bere birra e che lui mi mostri la sua UNO FIAT con tanto di scritta ITALIA appena sente che io vengo da lì.

Ho tutto il tempo per spiegargli che vorrei andare a Khayelitsha, visitare il posto ma se possibile invitare le persone a partecipare ad un progetto che sto realizzando sul Diritto Alla Felicità. Non tutte le persone indifferentemente, vorrei che lui individuasse qualcuno che conosce e sa che ha qualcosa da dire.

“Wow, mi piace tanto!“ Finito il panino si parte. Prima tappa, una insegnate di un piccolo asilo.

Arrivati a Khayelitsha non riesco neanche a scendere dalla macchina per quanti bambini mi corrono letteralmente in braccio. Saltano tutti i programmi, resto con i bambini a fare la mamma. Siviwe ne prende in braccio tre, prende la mia borsa e la macchina fotografica e fotografa me, non so con quale mano, immersa tra i bambini. Ho bambini attaccati alle gambe, due in braccio e manine dappertutto, soprattutto tra i capelli. Tutti vogliono toccare i miei capelli, sono lisci, sono diversi da quelli delle loro madri.

Siviwe dice che tutta Khayelitsha fa da padre e madri a questi bimbi e pulisce il nasino di due o tre. Poi mi chiama entriamo in una casa dove c'è una giovane studentessa che partecipa al progetto. Ci accomodiamo sul sofà blu, è di pochissime parole ma scrive una frase lunghissima, la fotografo e intanto Siviwe ha trovato altre persone. Entriamo e usciamo da casa con porte aperte e a volte restiamo dentro con i padroni di casa che scritta la frase vanno a chiacchierare fuori mentre noi traduciamo in inglese le loro parole scritte in Xhosa. Una penna non funziona e esco da una casa e entro in un'altra per cambiare penna senza chiedere il permesso né all'uno né all'altro. Tutto è di tutti, pure mio in questo momento.

Siviwe traduce parole che sono di una semplicità disarmante e piene di speranze. Questo progetto fatto tra gli afrikaner ha avuto parole che somigliano molto a quelle degli italiani, parole molto astratte. Tra i neri invece i sogni sono concreti, parlano di attività, di business. C'è il sarto che cerca uno sponsor, il gioielliere che ringrazia Dio per il suo talento e che è felice quando crea oggetti d'oro e d'argento e poco importa quanti soldi ne ricaverà, c'è il pittore felice al tavolo di lavoro e quando fa l'amore. Ma non firma l'autorizzazione finché non mi fa promettere che non farò leggere la sua frase a nessuno nella township, dico no, io le metto su internet nel mio sito, non le leggono qui i tuoi amici ma solo chi si collegherà al mio sito. Così va bene, allora firma.

L'insegnante dell'asilo scrive una frase lunghissima dicendo che è felice quando è con il marito, quando è con i suoi bambini e con i bambini dell'asilo ma che la felicità più grande per lei sarebbe guidare una SuperCar! “Yeah! Sorella c'avessi i soldi ti porterei in Ferrari a scorazzare dove vuoi!“ “Oh Thank you, gimme five sister!“ ride che s'accoppotta con la sedia e si fa fotografare con tutta la scolaresca al gran completo.

Siviwe traduce, aspetta paziente come un santo tutta questa tiritera. “Ti annoi?“ gli chiedo “ ma stai scherzando? mi sto divertendo tanto! Anche io ho pensato a una cosa da scriverti, voglio parlarti di un mio progetto ma prima voglio mostrartelo, ti va di andare a Langa?‘

Lasciamo Khayelitsha per Langa, attraversiamo le township che stanno in mezzo. Per la strada gli chiedo se posso offrirgli qualcosa, pensavo a qualcosa da bere ma lui vede un banchetto della frutta e dice “Sì, grazie, prendiamo una banana“ Chediamo tre banane e per me una mela.

Siviwe ormai perfettamente nella parte invita a partecipare al progetto i due fruttivendoli.

Grandissimo errore! I due sono fratelli, rasta ma dei rasta non hanno affatto la vocazione per il peace&love.

Mi assalgono di domande, mi accusano in quanto bianca della loro infelicità, mi dicono lo sai che noi eravamo felici? mi dicono lo sai che i padri dei tuoi padri dei tuoi padri hanno portato qui la legge del diavolo? Di dove sei? Li guardo incredula con la mela in bocca e Siviwe è indeciso tra il ridere e portarmi via da là.

Sono italiana.

Ah! Italiana! Conosci il papa? sei mai stata al vaticano? lo sai che il papa è il diavolo? i padri dei tuoi padri dei tuoi padri hanno portato l'infelicità in africa

Siviwe dice “andiamo“ io dico al fruttivendolo “ok brother adesso siamo qua, tu sei nero io sono bianca che vogliamo fare?“ Siviwe dice “Listen Man, se vuoi partecipare al progetto scrivi e lei ti fotografa se no Dio ti benedica fratello“ Mi guarda fisso, per un tempo lunghissimo non abbassa le palpebre, fisso con tutto il disprezzo verso di me porta il mio quaderno a sé e scrive “La felicità per me è distruggere il numero 666, marchio del diavolo“ e aggiunge tra parentesi “cioè il Papa“

“Ok mi interessa il tuo punto di vista fratello“ e faccio per chiudere il quaderno. Wait! Wait! se lo riprende e aggiunge “La società segreta“ nel posto dove deve formare scrive Unhappy African. Al momento di farsi la foto dice ancora Wait! Wait! va dietro alla bancarella e ritorna per mettersi in posa con un quadro del suo Dio, Hailli Sellassie, the power of the Holly trinity scrive ancora nel quaderno.

Siviwe non ne può più, è già verso la macchina, faccio per raggiungerlo ma prima dò la mano ai fruttivendoli per ringraziare e salutarli. Le mani si incrociano col primo dei fratelli che mi dice “No!“ come se chissà che torto stavo facendo, “No!“ Sivuwe mi è di nuovo accanto forse preoccupato da questi pazzi “non si saluta mai cosi! Lo vedi questo? e mi mostra i due pollici il mio e il suo che incrociandosi descrivono una svastica. “Noi non siamo nazisti, noi fratelli africani salutiamo così“ le mani pugno contro pugno e il pugno portato al cuore. Ma va a cagare... credo che pure Siviwe l'abbia pensato e corriamo tutti e due in macchina lontani da questo due che sono quanto di più vicino ad un terrorista io abbia mai incrociato! “I can' belive! Crazy boys, Just crazy boys, andiamo via, scappiamo“ dice Siviwe più incredulo di me e accellera. “spero che la mela non sia avvelenata“ , lasciamo alle spalle una nuvola di polvere dalle ruote della UNO FIAT ITALIA.


Arrivamo a Langa. Siviwe si avvicina a un garage apre la porta dal basso verso l'alto e mette un pesante palo di legno per tenerla aperta. Dentro è buio pesto, intravedo dei ragazzi. Sono 36 ragazzi, studenti di danza di Siviwe che al buio del garage si stanno allenando. Siviwe ha un progetto che si chiama Happy Feet e allena 36 ragazzi dai 6 ai 16 anni in una danza ispirata ai balli dei minatori. Dice qualcosa loro in Xhosa e sento il click che fanno per parlare nella loro lingua e incominciano a uscire fuori. Sorrido a tutti, mi sorridono. Siviwe mi dice “Adesso ballano per te“

Appena fuori dal garage c'è un marciapiede molto alto, decorato con le mani intrise di pittura di tutti quanti, è il loro palcoscenico. Si aprono le danze, iniziano i piccolissimi, poi via via gli adulti. Indossano stivali di gomma e seguono il ritmo che creano battendo le mani lungo gli stivali. È incredibile il sincronismo. Di ritorno in Italia ho visto che è iniziato X-Factor, con tutto il rispetto ma qua altro che Fattore X, ci sono ragazzini con un talento incredibile, e fanno spettacolo senza luci, senza microfoni, usando un paio di stivali e il loro corpo. Siamo dentro all'arancio del sole che sta calando e io sono l'unica del pubblico. Meriterebbero attenzione, applausi più rumorosi di quello che riesco con due mani.

A un certo punto uno scricciolo con una magliettina fucsia resta in piedi mentre gli altri sono accucciati con le mani ferme sugli stivali, e nel silenzio canta a cappella, la sua voce risuona fra le lamiere; è una, è piccola ma sembra che stiano cantando in tanti. Chiude gli occhi e braccia al cielo canta “africa- africa-africa“ canta la sua terra con passione, canta un mondo di miseria, di speranza, canta a nome di tutti, canta tutto il suo amore. Sono piena di lacrime, di gratitudine, c' è qualcosa che parte da questo scricciolo e trova un cassa di risonanza in me. Lei canta e io sto bene. Questo è tutto quello che io chiamerei arte e che di sicuro io chiamo bellezza. Sono al centro di una preghiera.

La bambina si chiama Anita, ha 10 anni; le dico sei brava Anita, devi continuare a studiare a studiare per migliorare sempre, hai un bel talento, studia!

Non si staccherà più da me, mi abbraccia in continuazione, mi porta amichette da conoscere, e quando me ne vado mi fa scendere dalla macchina per un ultimo abbraccio. Forse mai nessuno ad Anita ha detto “brava, tu sei la numero uno!“ Ma lei è la numero uno per davvero!


Torniamo a Cape Town, il tour è durato molto più del previsto. “non mi sembra di aver lavorato oggi, sembra di essere stato in giro con un'amica“

“oh, Siviwe, è la cosa più bella che potevi dirmi“

“È così, non ti sei spaventata di niente, non hai indossato la cintura di sicurezza in macchina, non avevi paura, sei tranquilla. Quasi non dovrei chiederti i soldi“

“Yeah Brother! Ascolta, ma può una bianca vivere qua?“

“Non ci sono bianchi qua, ma per vivere qua basta poco, basta che non stai chiuso dentro casa, ma che fai amicizia con i vicini. la mattina prima di uscire a lavoro e la sera quando torni passa del tempo con loro e vedrai che non ci saranno problemi, si sta tranquilli“

Ma mentre parla deve schivare due che fanno a botte in mezzo alla strada, più avanti c'è un'auto ferma e una donna distesa a terra tenuta per la testa da un uomo disperato, due macchine della polizia sono ferme dall'altra parte della strada. Ferme. I poliziotti stanno fermi, stanno lì a guardare.





La notte che ho l'Aids.

Questa sera non so come Antonella mi parla dell'AIds, di come la stragrande maggioranza dei neri ha l'Aids.

Questa notte la mia testa fa rumore e invece di dormire io l'ascolto dirmi che ho l'Aids, per giunta trovo su facebook l'email di Saretta che mi ha sognata, dice che nel sogno io aspettavo una figlia bellissima.

Questa notte la mia testa dice che ho l'Aids e aspetto una figlia.

Invece del sonno ho solo un fastidioso dormiveglia tanto che alle quattro preferisco restare sveglia.

Mi chiedo cosa farei se scoprissi che sto per morire tra tre mesi. La risposta arriva chiara: se sapessi che tra pochi mesi muoio io affitterei un camion, anche se non lo so guidare ma tanto è un sogno, e visto che sono venuta al capo più al sud del mondo a fare il mio progetto sul Diritto alla Felicità, ecco io traccerei una linea sull'atlante per risalire attraverso l'Africa fino al Capo più al nord del mondo, per incontrare le persone e chiedere “che cosa è per te la felicità?“

E quando avrei finito mi lascerei morire come Richard Braun in The Hours, quello fico, quello che dice “Oh, Mrs. Dalloway, always giving parties to cover the silence“ e come lui mi lascerei cadere dalla finestra in mezzo alle vocali e alle consonanti dei pensieri più felici della mia raccolta, lasciandoli come eredità al mondo.

Yeah, sarebbe una fine favolosa!

Ma trovata la soluzione non ho più il problema, mi sveglio senza l'Aids e con il mio splendido sogno e penso che ho 2500 amici su facebook se ognuno contribuisse con pochi euro potrei in parte realizzare il mio progetto.

Wow, ficherrimo sarebbe!




Ciao, ciao Cape Town.

Sta per concludersi il mio viaggio, sono da Osumo, un ristorante di solo cibo biologico ma con le solite porzioni inimmaginabili, e sono con un flusso di pensieri, il pensieri della fine di ogni cosa, quelli che arrivano quando tu sai che stai per chiudere un capitolo e vedi che tutto attorno continua allo stesso modo. Dalla vetrina del ristorante vedo ragazzotti bianchi passeggiare con tavole da surf sotto braccio, altri muoversi tra le macchine con i rollerblade, molti a piedi nudi e tutti che si muovono, continuano a dar vita a questa strada dove tra poco io non ci sarò.

Sono i pensieri della fine di qualcosa, quello che sembra strano che tutto continua pur senza qualcos altro. Ricordo perfettamente la prima volta che mi sono venuti i pensieri della fine di qualcosa, era tanti anni fa, era morto un mio amico il giorno dopo aver compiuto 18 anni e mi sembrava innaturale che tutto continuasse normalmente a vivere.


L'sms de L'UomoMandatoDaDio interrompe il flusso dei pensieri della fine. Mi scrive “Passo a mostrati come si saluta un africano“

“I can't wait, Man“

e ci vediamo.

Gli dico scegliti una location voglio farti delle foto. Sceglie di andare in spiaggia a Camps Bay, una scelta stonata per quello ceh voglio fare ma dice che lì adesso sta scendendo il sole.

Ha una macchina che non è sua, la sua è dal meccanico ancora, questa è verde pisello con la scritta Chico sulla portiera, però la portiera si chiude bene.

Arriviamo a Camps Bay, la spiaggia dei bianchi, la spiaggia dei ricchi “non mi piace qua, ma quando potrò comprerò una casa qua solo per vedere la faccia dei bianchi!“

Il mio progetto si rivela impossibile da fare, vorrei fare dei ritratti a lui con un pezzo del mio corpo dentro, “dipende da quale pezzo, baby?“ “Il migliore Man“. Gli spiego che vorrei fargli delle foto in cui lui deve stare fermo e guardare in macchina e non fare niente se non essere se stesso, un uomo. io avvicinerò una mano al suo viso, un braccio al suo corpo e di me si vedrà solo la mano o il braccio, un pezzo del mio corpo.

“Mi piace! Ci sto!“

Perfetto.

Ora il problema è trovare uno scoglio dove deve stare lui, di fronte alla stessa altezza un altro scoglio dove posizionare la macchina senza farla cadere a mare, poi io dovrei inquadrare, mettere a fuoco e in 10 secondi mettermi in posa accanto a lui.

“Togliti le scarpe ce la fai“

Invece gli scogli sono taglienti, con un paio di prove riesco ad arrivare accanto a lui ma affondo i piedi fra le cozze in mezzo agli scogli e smonto tutta la messa in scena. Riusciamo a farne due, fanno schifo, poi rinuncio.

Passeggiamo sulla spiaggia correndo attorno alle onde che vanno e vengono sulla riva, fino al punto in cui tutto è arancione e il sole cade giù.

“ehi, Man, guarda! c'è il tramonto, finalmente non lo abbiamo perso!“

“..proprio adesso che ci perdiamo noi!“ Fa un passo dietro di me, si abbassa e guarda il tramonto appoggiando la testa sulla mia spalla. “Ma tu torni, lo sento che torni. Stai andando a Roma il tempo di una pizza, di salutare i gatti e poi torni da me e quando tornerai avrò una casa tutta mia, tu verrai a stare da me, ti farò stare bene“

“Pensa quanto sarà felice la tua donna! ...Non pianificare, Man e poi sembri che stai leggendo un copione“

Lui lo sa e ride anche lui.

“ah, è vero, non sono un uomo di cui fidarsi. Ma torni, c'è qualcosa che me lo fa sentire. A Dio piacendo, quest'estate tu torni“.


L'aereo sale su, un po' dormo, un po' piango, un po' cerco di vedere Cape Town dall'alto per l'ultima volta ma c'è uno strato di nuvole fitte.

Dormo un po'. Quando mi sveglio mi affaccio ancora, siamo volando non so esattamente dove ma di certo sulle cime di due montagne che a valle tra il versante dell'una e dell'altra accolgono un lago. Il lago ha la forma di un cuore. Mi torna in mente quando una volta facendo l'ultima escursione a piedi per la savana del kenya nel mio ultimo giorno di quel viaggio ho trovato un sasso con inciso sopra un cuore e l'ho preso come un messaggio d'amore che l'Africa aveva scritto per me.

Ma due volte no! Due volte è da visionaria. Da pazza, da ingenui, da scemi. Mi affaccio, rientro mi affaccio ancora. Cambia il punto di vista ma quel lago forma sempre un cuore. Mi sorrido da sola e ho una bellissima intuiizione, io adesso, in questo momento sto capendo perfettamente che non è l'Africa, non è un posto, non è un uomo, non è un'amica, non è un viaggio, non è un lavoro, ma è il luogo in cui tutto questo confluisce, il punto in cui tutto questo diventa UNO, una cosa sola.

Questo punto sono io, crocevia di ognuna di queste vibrazioni, incrocio di tutto quanto questo amore.


Qui le foto del mio viaggio

http://www.speranzacasillo.com/southafrica/


Much Love,

Spé.